Ogni volta che sono chiamata ad esprimermi – nell’ambito del mio lavoro ma anche come donna e madre – su temi che riguardano l’infanzia, l’adolescenza e la formazione delle nuove generazioni, tre questioni mi si pongono con forza: i bambini che non ci sono, le generazioni senza opportunità, le responsabilità della comunità degli adulti.
Innanzitutto, infatti, vedo l’urgenza di invertire i destini demografici di un paese a natalità decrescente, che assiste da anni alla migrazione delle giovani generazioni verso opportunità oltreconfine e che fatica a generare occasioni concrete di partecipazione per chi si inserisce nel mercato del lavoro. Diventare un paese “Youth Friendly” è oggi una priorità politica, culturale, economica, amministrativa, perché da questo dipende il reale e duraturo rilancio dell’Italia.
La seconda questione è sicuramente quella della povertà. Una povertà economica che colpisce le famiglie ma che produce effetti ancora più gravi sui bambini, perché genera a sua volta povertà educativae maggiore difficoltà di accesso ad opportunità non solo culturali e scolastiche, ma anche di salute e socializzazione. Questo terribile effetto a catena rende l’indigenza una pesante eredità intergenerazionale.
I numeri confermano la drammaticità della situazione:
Solo il 13% dei bambini tra 0 e 2 anni riesce ad andare al nido o a usufruire di servizi integrativi, il 68% delle classi della scuola primaria non offre il tempo pieno e il 64% dei minori non accede a una serie di attività ricreative, sportive, formative e culturali (in Campania la percentuale raggiunge l’84%). Il 48% dei minori dai 6 ai 17 anni non ha letto neanche un libro nell’ultimo anno, il 55% non ha visitato un museo e il 45% non ha svolto alcuna attività sportiva.
È quindi necessario consolidare unastrategia di contrasto alla povertà strutturale, capace di rimuovere cause ed effetti soprattutto nel lungo periodo e di far convergere nel territorio politiche, risorse, competenze e iniziative dei diversi soggetti della comunità (penso alle istituzioni pubbliche, alle imprese, alla società civile nelle sue diverse componenti), sostenendo un accesso intelligente e mirato ai servizi educativi e sanitari, così come alle opportunità culturali, relazionali, di formazione e di accompagnamento al lavoro.
La terza questione è quella dell’adeguatezza dei contesti educativi e formativiche mettiamo a disposizione dei più giovani. Bisogna partire dal presupposto che tra le nuove generazioni e la mia esiste un gap comunicativo mai vissuto in passato. Quelli di oggi sono a tutti gli effetti i primi “educatori, genitori, insegnanti” chiamati a rapportarsi con i “nativi digitali”. Non si tratta solo di differenza di linguaggi, forme o strumenti di comunicazione, ma di un modo profondamente diverso di relazionarsi con le persone, con le cose, con le esperienze.
Questo si traduce in una modalità differente anche di apprendere e costruire le proprie competenze e i propri saperi: una modalità basata sul superamento della cultura della proprietà verso la cultura dell’accesso, della condivisione aperta, della socializzazione circolare, e garantita dal supporto strutturale di tecnologie, device e social network.
Insomma,
siamo di fronte a una rivoluzione tecnologica che trasformerà (e in parte lo sta già facendo) non solo gli strumenti e le competenze, ma anche i processi e i percorsi di costruzione del valore sociale, relazionale, economico e redistributivo. La sfida è quindi quella di rifondare una cultura educativa
capace di reinterpretare, alla luce di queste trasformazioni, il suo ruolo di accompagnamento al futuro delle nuove generazioni.
Questo post è a cura di Claudia Fiaschi, portavoce Forum Nazionale del Terzo Settore