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Ragazzi d’Aspromonte

Una scuola come simbolo dello Stato, in un territorio dato per perso. Nel paese di Corrado Alvaro e dei boss, i ragazzi cercano un futuro lontano da padrini e faide, fra un campo in erba e un laboratorio chiamato Punto Luce. Anche se sembrano condannati a una vita da ‘ndranghetisti, c’è chi ce l’ha fatta. E la preside racconta le discussioni con le mamme che vedono nel calcio l’unica possibilità di fuga. “Ma quello può diventare chirurgo e tu lo vuoi calciatore? E chi viene a salvarmi sulle montagne?”

di CONCITA SANNINO – Foto di ADRIANA SAPONE   (La Repubblica 16 giugno 2017)

C’è un lungo silenzio da decifrare prima di poter sentire la voce secca e tagliente di questo paese. Sta come caduto a mezza costa, aggressivo e disilluso, diffidente e ferito, San Luca. Il borgo da cui partì Corrado Alvaro, prima di scrivere che “l’uomo è il prodotto dei suoi errori”, ha generato il paese dei padrini e delle faide infinite. L’ombra di narcos efferati e soldati bambini al posto dei suoi Argirò e dei Mezzatesta, signori, pastori o banditi ritratti sotto teorie di nubi “che simulavano regni profondi”. Quasi ottant’anni dopo, il cuore dell’Aspromonte resta lontano. Nonostante le promesse di un nuovo cammino. Segni timidi, troppo. C’è sempre il vuoto, tutt’intorno, da attraversare. È quello che si spande per chilometri di asfalto consumato e intrecci di sterpaglie ai bordi, di strada statale senza segnali, di viuzze che si fanno stradoni e poi curve rischiose e brevi salite: è su uno di questi tratti che una maestra al volante è finita uccisa quattro giorni fa, “un incidente banale” ed è rimasta a terra per ore fino all’arrivo di un elicottero, sotto un lenzuolo pietoso, accanto alla distesa di felci. San Luca è la sorgente di ogni storia di ‘ndrangheta, la radice da cui è scaturita la strage di Duisburg, il comune sciolto già due volte per condizionamento mafioso. Tuttora senza un sindaco, perché anche quest’anno nessuno ha presentato le liste. Ma dietro la crosta delle saghe criminali, si apre una terra di mezzo dove il nemico vero, oggi, si chiama povertà educativa e assedia i più giovani. Significa: poca lingua italiana, poca lettura, pochi spazi e giochi, pochissime connessioni. Significa scarse possibilità anche di pensarlo, un futuro, per i ragazzi d’Asprumunti. Un posto dove, a volte, si smette perfino di sognare. Cosa, poi? Cose normali, servizi. Un cinema, una palestra, un posto dove fare o sentire musica, perfino un bus che non sia una rara corriera, un luogo d’incontro. E occasioni di ascolto, di incontro, d’amicizia. Perfino di colori.
Una coltre di grigio avvolge San Luca. Forse è anche l’effetto di quegli scheletri di fabbricati senza intonaco, che spuntano ovunque, mentre risali dalla costa, da destra a sinistra. Edifici che i padri fanno costruire a futura economia per le bambine di casa: lasciandoli poi per decenni, così come escono dalle mani degli edili. Monoliti grezzi, nudo calcestruzzo o mattoni color ruggine. Siano palazzine turrite, villette con balconate o tozze costruzioni a due piani, non cambia: tutte edificate e incompiute, nell’attesa che siano inaugurate da spose acerbe. Come segno di potere, dote per femmine. È lo stesso tono cinereo che avvolge anche il centro, con un solo bar, la panineria, una sala slot machine aperta proprio di fronte al Municipio. Il paese è già muto, nel pomeriggio. Il vento si è alzato, l’illuminazione pubblica è bassa, troneggia lassù la scritta Viva Sant’Antonio, luminaria della parrocchia-madre in una Chiesa che pure sta ricalibrando gesti e parole.
Una comunità dove anche il sacerdote, don Pino Strangio, è sotto processo per collusioni, dove il santuario miracoloso di Polsi era usato per i summit dei padrini e dove oggi il vescovo, monsignor Francesco Oliva, con rigore estremo ha sospeso le cresime della prossima settimana per gli adulti. Lo ha fatto in segno di penitenza dopo che un paesano, “un bravo diavolo senza colpe”, a sentire le voci del bar, ha baciato pubblicamente le mani al boss Giuseppe Giorgi mentre lo portavano via dal suo bunker, il mammasantissima stanato dai carabinieri dopo 23 anni di latitanza a casa sua. Alle spalle si è lasciato non solo i 157mila euro in contanti nascosti nell’intercapedine, ma le vaste perforazioni nei muri, i grossi fori scavati dai segugi dell’Arma fino al terzo e quarto piano e che ora si vedono dalla strada. Adesso è il palazzo dei buchi, e sembra una scena di Narcos, la spietata web serie di Netflix. Strade più deserte del solito, mentre raggiungi il centro. “E dove vulite i cristiani, oggi? Nun li truvate. Stanno ‘u spusalizio”, sorride una pensionata affacciata alla balaustra del suo basso, sopra lo spiazzo senza nome. “Oggi non trovate gente in giro, c’è un matrimonio e mezzo paese si è riversato lì”, ti spiega Carmela Serafino, la preside dell’istituto comprensivo di San Luca e Bovalino frequentato da 530 ragazzini dai 5 ai 14 anni. È scuola materna, elementare e media, intitolata a “don Giuseppe Signati” altra pasta di sacerdote che fu “messia” laico del Novecento di San Luca. “Quanti saranno? Cinquecento invitati, grandi e piccoli. No, non è mica il record.

L’altro mese dovettero fittare due sale di ristoranti. Erano in mille, a quelle nozze. Si conoscono tutti e non si vuole fare torto a nessuno, i bambini erano tutti eccitati”, ti aggiorna l’insegnante. Qualche anziano, invece, che non ha voluto mettersi le scarpe lucide e l’abito buono per lo sposalizio, è rimasto a giocare a carte con i coetanei, giù al bar, sotto i pergolati che resistono in mezzo al cemento. Tavoli rossi, sedie verdi, tutto di plastica, tranne i bastoni di legno dei vecchi, poggiati in un angolo. Fanno spallucce se gli chiedi come mai non si è votato neanche quest’anno, per dare una vera amministrazione comunale a San Luca. “Tanto sempre ci mandano a casa. Basta che c’è una parentela. Ma noi questi siamo, tutti vicini di famiglie. Allora non fa niente, restiamo cosí “. “Certo, sono stato in carcere – racconta un altro, che è famoso per il lessico provocatorio –

Qui non abbiamo altre industrie, non abbiamo altri istituti di cultura”. Ha lavorato molto la sub-cultura, in effetti. Primo scioglimento per infiltrazioni, nel settembre del 2003. Il secondo, maggio 2013. Ma che importa? La vita continua. Forse, con meno pensieri di prima. Festoni e gigli sul cemento grezzo, anche la casa della sposa è senza intonaco. E sta a ridosso del Palazzo comunale, che tanto si apre una sola volta a settimana, da quando c’è il commissario prefettizio, Salvatore Gullì, che ormai tutti chiamano ‘u sinnaco. Ma all’esterno non trapela baldoria, non c’è l’eco di musiche. Sembrano le prove di una festa da fiction, invece sono nozze reali, grappoli di intere famiglie ricomposte per l’evento, mariti padri e fratelli che tornano. Sono camerieri, cuochi, carpentieri, operai di talento che lavorano a migliaia di chilometri. Storie semplici di emigranti che convivono con quelle di viaggiatori di altre rotte e ben altra fedina penale.

Qui sono nati i Nirta, gli Strangio, i Pelle, i Vottari, i Giorgi. Le cui traiettorie sono finite – se non al carcere duro del 41 bis – in America, Colombia, Argentina, Australia, Brasile. O nella vicinissima Spagna. Dove proprio una settimana fa, a Murcia, è stato massacrato con un colpo di grazia alla testa il boss Giuseppe Nirta, originario di San Luca. Nomi scritti in cima all’impero mondiale dell’economia del narcotraffico. Eppure, se ti fermi in quella che è stata culla di generazioni di manager del crimine, incontri – soprattutto – un paese di giovani. Anzi, di giovanissimi. Li vedi anche in strada. Tra le case addossate alla montagna vive la comunità più acerba di un Aspromonte in via di spopolamento. “Chi siete? I giornalisti che ci denigrano?”, ti fa Vittorio, più curioso che triste, una bicicletta per amica, avrà dodici anni, lo segue una sorellina. “Niente, ci sta qua. Per vedere un film dobbiamo fare quaranta chilometri, a Bovalino, capisci?”. Un secolo dopo Alvaro, trovano solo la scuola come pezzo di Stato in regola: l’avamposto solitario ma vivo, dove percepire l’esistenza di altre vite possibili. Su 4mila abitanti, a San Luca, quasi mille sono minori. È il paese dei fanciulli, nella Calabria lasciata più indietro. Il più ricco d’infanzia. In teoria, di speranza.

I ragazzi senza niente da fare

“Da grande? Voglio stare a Milano, o a Napoli. Qui che cosa puoi fare?
Il pastore?”, ride Luigi, ha 14 anni, in via Croce. “San Luca mi piace, è un paese bello, ma me ne voglio andare”. Le bambine, a pochi metri, camminano con una zia. Pochi smartphone, più palloni. Libri, pochissimi. “Escono da qui, lasciano le nostre lezioni e fuori non trovano nulla. Ma come lo possono occupare il tempo, dopo la scuola? Cosa devono fare? Così i maschi li vedi girare in motorino, su e giù, chilometri e chilometri, ma è sempre niente da fare. Per le ragazze, ancora meno. Non hanno luoghi in cui ritrovarsi, non hanno un posto dove parlare se non la strada, un cortile di casa”, racconta la preside Serafino. Fortemente legata alla sua formazione scientifica, serba ancora il ricordo di quel suo giovanile dottorato a Napoli, all’Università Federico II, nello stesso periodo in cui brillava la stella del matematico Renato Caccioppoli. Studi di cui le è rimasto “l’ancoraggio alla razionalità, la fiducia nelle azioni di ogni giorno, poter fare, dover fare”. Dal settembre del 2015 guida la scuola che sta appollaiata sopra corso Matteotti, strada di montagna che guarda ai boschi. Ma l’ha ereditata da una collega, Mimma Cacciatore, che per quattro anni non si è rassegnata alla drammatica scena in cui la funzione formativa, piano piano, moriva.

“Medioevo? No, io trovai proprio l’inferno. Non era una scuola – racconta Cacciatore, che adesso insegna a Vibo Valentia e sembra ancora commossa al ricordo – Non c’era niente di adeguato a San Luca. Spazi luridi che avrebbero dovuto essere i bagni. Porte e finestre tutte rotte o danneggiate. Pochissime risorse. Battaglie infinite con il sindaco di prima, Sebastiano Giorgi, che poi fu arrestato, era uno dei nomi dell’operazione Inganno. Poi legai con i bambini. E loro furono la mia salvezza. Ho amato quei bambini come i figli che non ho mai avuto. Mi attaccai a loro quasi in maniera esasperata. Guardare quegli occhi puri dei ragazzi di San Luca mi ha dato una grande energia”. La Cacciatore lotta con Roma e con San Luca, parla con ogni sottosegretario e non si vergogna di piangere per ottenere collaborazioni istituzionali e ascolto dal governo. Scrive e minaccia denunce, affronta famiglie e colleghe pur di non vedere più banchi e sedie volare giù dalle finestre o allievi azzuffarsi con violenza, nell’indifferenza generale. “Sono solo piccoli bulli”, si sente anche dire. Ma questo era il “prima”, ti oppongono subito a San Luca. Dove, comunque, i bulli e i violenti agiscono ancora. “Solo che mentre si azzuffano, già fanno pace “. Oggi la nuova preside Serafino, che non nasconde l’ammirazione per chi l’ha preceduta ma anche la legittima volontà di scrivere la propria storia, tiene a preservare il basso profilo. Può esibire con un velo di orgoglio “una scuola normale, senza conflitti, senza primati negativi, senza condottieri solitari. Una comunità di educatori”.

È il suo modo di arginare l’Antistato: sentirsi Stato, blindare i piccoli lussi che ovunque sarebbero scontati. “Ha visto quanta pulizia? Ha visto che ci sono tutte le maniglie alle porte. Che nessun infisso è a pezzi?”. Ammette: “La scuola a San Luca è più difficile perché non c’è lavoro, non c’è vita sociale, perché esci e non trovi lo Stato, nelle sue quotidiane articolazioni. Questo è. Ma i passi avanti li abbiamo compiuti. La collaborazione con Prefettura e commissario è stata preziosa, le associazioni esterne e la sensibilità degli organi centrali ci fanno sperare. Lo sa che qui sono venuti a parlare un funzionario di polizia, un magistrato? E i ragazzi non se ne sono allontanati, parlavano, ascoltavano”. Fuori, scorrono anche scene dissimili. Totò avrà 15 anni. Sta sul muretto, vede l’auto civetta dei carabinieri passare. “‘Sti sbirri a chi vogliono? Lo sanno che ci devono lasciare in pace? Siamo gente tranquilla”. La scuola agisce senza spaccare. Dentro, slogan colorati dai ragazzi, foto di convegni. Con un gesto a effetto, la dirigente ti mostra anche il piccolo teatro che fu messo in piedi dieci anni fa da Michele Placido, velluto rosso steso sopra le gradinate per farle più solenni, le luci comandate da un quadro speciale, è l’unica sala nel raggio di cinquanta chilometri. “Alcuni di questi allievi hanno una logica fuori del comune, un’intelligenza che colpisce – confessa Agata Vottari, che insegna matematica e scienza nella terza A – E io mi arrabbio con le mamme perché per molti il sogno è diventare un campione da scudetto.

Ma come, protesto, quello può diventare un chirurgo e tu me lo fai calciatore? E chi viene a salvarmi, sulle montagne?”. “Sono ragazzi che soffrono solo di timidezza, sui quali spesso si riversa un marchio facile, come sul paese”, ragiona Elisa Romeo che è docente di italiano, storia e geografia. “Le resistenze alla socialità appartengono più alla chiusura tipica dei paesini, che al peso di un passato negativo”, dice Piera Landolfo, che è maestra delle elementari. Come gli altri, per non turbare i ragazzi dice “negativo” per non dire ‘ndrangheta. “Fin da piccolissimi, ti accorgi che le femmine non giocano con i maschietti. Stanno in compartimenti separati. Sono automatismi difficili da scalfire”. Si scarta un vassoio, pasticcini preparati per tempo, agli ospiti non è dato sottrarsi. Perché San Luca ha anche questo lato generoso. Con i forestieri, in particolare. “Sono squisiti i dolci calabresi, di una pasticceria arroccata più sopra.

Il paese ha molte doti che non si vedono. E anche se può sembrare un luogo abbandonato, senza attrattive, non si può immaginare l’orgoglio che questi figli coltivano per il loro presepe”, riepiloga la dirigente. Completa il giro dell’istituto, anch’esso circondato di cancelli, tutti grigi. “Abbiamo anche la palestra con le due porte di calcio, anche quella è nuovissima, venga a vedere quant’è bella. Certo, non ci sono gli attrezzi, ma se è per questo la scuola non ha ancora neanche un laboratorio scientifico. Mancano le risorse finanziarie. Lo sa quanto ci gira al mese, il Comune? Cento euro. E i fondi del Miur non bastano. Le colleghe ce la stanno mettendo tutta. Ma mancano le risorse finanziarie, mancano quelle strumentali. Lo sa che la preparazione per i test Invalsi è stata fatta gratis da alcune delle mie colleghe? Non vorrei sembrare venale, ma al governo abbiamo chiesto che il prossimo settembre arrivino più soldi per poter portare avanti le progettualità necessarie”. E c’è una questione femminile più sotterranea e delicata. Un caso nel caso. “Per le ragazze devono darci un centro polifunzionale, uno psicologo, specialisti che facciano ascolto – chiede la professoressa Agata – Perché passano in casa troppe ore, condannate a una chiusura “. Forse è per questo che addirittura, le più piccole, ora sognano di diventare calciatrici, proprio come i maschi del paese. “Alcune di loro – sorride la preside – si sono scoperte brave come centravanti, o portieri. Andranno a Coverciano quest’estate. E mi creda, che a San Luca si formasse una squadra femminile era inimmaginabile. Non era scritto neanche nella mente di Dio”. In quelle aule, spesso, si sono divaricati i destini.

Molti pagano il prezzo di strategie criminali e militari, come raccontano i fascicoli giudiziari. Venti casi tra minori finiti sotto processo per armi, violenze, estorsioni, negli ultimi anni, solo a San Luca. Oppure temporaneamente allontanati dai contesti criminali di provenienza, su disposizione dei giudici minorili di Reggio Calabria. “Eppure, dalla scuola, mai ricevuta una sola segnalazione in tanti anni. Perfino nei giorni successivi alla strage di Duisburg, quando i ragazzi delle famiglie nemiche non frequentarono più le lezioni, nessuno avvertì questi uffici giudiziari: lo abbiamo ricostruito dopo anni, grazie a indagini e collaborazioni”, è l’analisi spietata del presidente del Tribunale per i minori, Roberto Di Bella. “So di dire una verità forte. Ma le agenzie educative negli ultimi anni hanno fallito. Scuola, chiesa, tutti.

Ora vedo segnali nuovi, avvisi di cambiamento, per la prima volta vengono da più parti, non sembrano del tutto episodici”. E come nelle zone di guerra, nelle aree del mondo dove l’infanzia è minacciata da rischi estremi, a San Luca arriva con uno dei suoi Punti Luce, Save the Children. Oltre centocinquanta bambini da quasi tre mesi sono iscritti ai corsi, allestiti nel vecchio terraneo tirato a lucido, l’ex Ospedaletto. Ogni giorno in fila, dozzine di ragazzi. Con l’eccitazione di chi riceve una festa inaspettata. Facce sveglie, piccoli sguardi curiosi che scoprono di volta in volta parole nuove, e libri, giochi, pouf e divanetti dove stendersi e parlare, un po’ di cinema, qualche gita. Nella stessa primavera, arriva anche l’inaugurazione di un campo di calcio da Lega Pro (“un impianto bellissimo che mezzo Meridione ci invidia “, lo dicono tutti). Un impianto che ha visto scendere letteralmente in campo, per la prima volta, magistrati e cantanti. Che ha messo insieme governo e insegnanti, tutte le forze dell’ordine, i calciatori della “A” e centinaia di scolari in mezzo a campioni della musica o dello spettacolo.

Angelo, 12 anni, figlio di un impiegato, c’era quel giorno d’aprile. “Voglio fare l’avvocato. Voglio studiare le leggi. Perché? No, non per la mafia. Perché mi piace e puoi diventare importante, comprare anche una macchina bella “. Come le Audi da 90mila euro parcheggiate in qualche stradina, da giovanotti muti che fanno su e giù col porto di Gioia Tauro. E vanno spesso nella Milano da sniffare. Nel giorno dell’inaugurazione del campo, il sole brilla su San Luca. In un posto in cui lo Stato è assente – o espulso, ignorato, chiamato infame da secoli – le ragazze si mettono in coda per strappare un saluto e un autografo alla sottosegretaria della Presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi. “Pare bella come la Mamma del santuario”, si danno di gomito. Il prato luccica.

Gli eccellenti cantano l’inno nazionale insieme a famiglie modeste. Il procuratore capo di Reggio, Federico Cafiero de Raho, e quello di Catanzaro, Nicola Gratteri insieme con Raul Bova. Il rapper Clementino e il musicista Paolo Belli con il vertice della Direzione nazionale antimafia, Franco Roberti. Ore di insolita mescolanza. Che armonia. Dalle stesse tribune, un tipetto vispo e scuro, sui dodici anni, d’un tratto mentre scatta le foto ai suoi beniamini, fa cenno a un poliziotto di non ostruirgli la visuale. Lo fa col solito intercalare. “Scostati, sbirro ‘e merda”. Tutti lo sentono. Si voltano. Nessuno vuole rovinarsi la festa.

Un Comune da ricostruire

“L’assistente sociale per i ragazzi? Non c’è”, allarga le braccia Salvatore Gullì. “Certo che non c’è. Ma se io non ho trovato neanche un dirigente di ragioneria per un Comune in dissesto. Non ho un solo vigile urbano. Eppure abbiamo ottenuto che la gente non gettasse più l’immondizia per strada fino a lasciare una discarica a vista, lunga dodici chilometri di strade. Guardi com’è pulito adesso, con una famiglia responsabile di ciascun cassonetto, numerato e nominativo. Siamo riusciti a riscuotere in un anno il 50 per cento di dieci anni di arretrati delle bollette dell’acqua, che ammontavano a 300mila euro.

Ad abbattere i costi dei telefonini di servizio, da 12mila a 1900 euro. Sa che qualche cellulare, intestato a dipendenti defunti, si collegava puntualmente con l’estero? Non potevamo permettere che i “morti” continuassero a parlare con mezzo mondo. Ma questo significa che c’era un’idea di amministrazione pubblica totalmente da rifondare”. Gullì, un messinese di polso duro e teatrale sarcasmo, è il commissario inviato nel Comune più difficile dal rappresentante di governo di Reggio Calabria, Michele Di Bari. Più volte prorogato, gestisce da oltre due anni l’ingovernabile San Luca. Gullì lo dice così: “Un Comune da zero, si doveva inventare. L’ho fatto grazie al prefetto, ma ci sono riuscito perché San Luca mi ha risposto con convinzione. Ha capito. Ha reagito con una dignità che io per primo non mi aspettavo “.

Un commissario di cui tutti, buoni e cattivi, ex detenuti e onesti cittadini, parlano bene. “Meglio che c’è lui. Ha fatto pagare l’acqua. Ha liberato il paese da tonnellate di rifiuti. Tanto a cosa serve andare a votare?”. Teoria difficile da contraddire se si pensa che un sindaco eletto, a caccia di conferme, più difficilmente avrebbe affrontato con fermezza anche quel Gambazza, un esponente dei Pelle, la cosca all’origine dell’efferata faida degli anni Novanta, quando si è presentato spavaldo in Comune. Ha raccontato, il “buonuomo” senza più debiti con la legge, che era da poco uscito dal carcere e non poteva tollerare che non avesse più l’acqua. Pare che Gullì, piuttosto schivo in pubblico e non incline a raccontare i dettagli, gli abbia replicato: “Non è un titolo di merito essere stato dentro per 416 bis (il reato di mafia, ndr). La fornitura dell’acqua gliel’ho interrotta io. La sua famiglia consuma 3.600 litri al giorno e non versa nulla.

La media è di 250 al massimo. Chi consuma di più, paga di più”. Gambazza si è seduto, ha guardato i conti, ha preso accordi per la transazione. Come lui, altre centinaia. È stata una battaglia quasi letteraria quella di Gullì, contro i contatori truccati. Potrebbe parlarne per ore. Impianti sorvegliati e collegati a segnalazioni sonore, missioni all’alba per evitare accessi clandestini sulla rete. “Eravamo pieni di cravatte. Ovunque”. Cioè? “Cioè: gli allacci fuorilegge, nel punto di presa della condotta”. Innesti fatti disancorare di giorno e di notte, a valle, sulle alture o sotto i ponti. Come la cisterna creata a uso e consumo di alcune famiglie di pregiudicati. Staccata. “Sopra e sotto, fino a scavare a sei metri nel terreno”. Abusi su abusi. Stratificati nel tempo. Frammenti di un’Italia dove troppo a lungo non sono valse leggi, né regole. Storture come quelle di una piccola impresa che si reggeva sul porcile totalmente abusivo, sorto senza autorizzazioni né sanitarie né edilizie, piantato in mezzo a San Luca, su terreno comunale. “Tantissime le anomalie. Sarebbe troppo lungo elencarle”.

Poi in mezzo a un mare di carte, è arrivata per Gullì “la sfida emozionante di quel campo da calcio che era un rudere, totalmente da riqualificare e realizzare in poco meno di un mese. Ma avevo ricevuto questa disposizione da Roma, attraverso il nostro prefetto. La Presidenza del Consiglio aveva scommesso che ce l’avremmo fatta”. Spogliatoi, tribune, anelli circolari, prato da serie A, tutto su input di Palazzo Chigi, senza gara. Una corsia privilegiata e la collaborazione di decine di pigri forestali di “Calabria verde”, la società regionale monstre che una volta si chiamava Afor, sacca clientelare per politici di ogni colore e Repubblica. Quello stadio a San Luca oggi è un gioiello. Cosa diventerà? Un cadeau che si logorerà lentamente in mezzo al vuoto e al grigio?

O una scommessa che costringerà grandi e piccoli all’esercizio della responsabilità? “Ho visto ragazzi di tutte le estrazioni emozionarsi come non mi era mai capitato – riflette Gullì – Quando sento le rievocazioni unilaterali sul paese dei boss e del narcotraffico, cambio canale. Negli ultimi anni, ogni volta che il paese è stato spinto a migliorare, non ha tradito questa chance. Se noi li portiamo in Italia, loro ci sanno stare. Se l’amministrazione si mostra tenace, le resistenze cadono. Se noi facciamo lo Stato, loro, in gran parte, non rinunciano a essere cittadini. Ho visto bambini svegliarsi alle 5 e mezza e saltare da soli su una corriera, per stare in tempo in classe, magari nel pomeriggio fare in auto un’ora all’andata e un’ora al ritorno vicino a genitori pazienti, per praticare lo sport. Per tentare un’altra fortuna. Non ho avuto momenti facili, da commissario. Ma se devo dirla tutta, il pensiero del futuro di questi ragazzi mi ha tenuto fermo sulla montagna. Se rinunciamo a crederci, siamo noi gli sciacalli”.

I ragazzi guardano, assorbono. “Loro sono i primi a capire se lo Stato fa finta o ci crede”, ammonisce il procuratore capo di Reggio, Cafiero de Raho, che con il questore Raffaele Grassi e i detective dell’Arma ha messo a segno oltre venti catture di latitanti pericolosi in due anni. Gli ultimi due presi dalla polizia avevano una parete di mitra e fucili allestiti nella baracca. Una capanna dallo scheletro in metallo, beninteso, perfettamente mimetizzata nei boschi. Invisibile. Sono immagini che, sui più piccoli, possono esercitare terrore. O fascino per “l’epica criminale”. “Alcuni giovani avevano gli occhi fissi sul latitante Giorgi, mentre il 2 giugno veniva tirato fuori dalla sua tana, proprio come u’ capra, il suo soprannome “, racconta un carabiniere del gruppo Locri. “Ma poi, come sempre, né al bar, né a scuola, né in bottega qualcuno ha pronunciato la parola ‘ndrangheta”.

È l’omissione che in tutto il reggino rende, spesso, l’aria urticante. È la stessa “dimenticanza” che ha spinto un mese fa Giancarlo Scafuri, il colonnello appena arrivato a guidare il comando provinciale di Reggio, a pronunciare in chiesa parole di fuoco durante la commemorazione del brigadiere Rosario Iozia, un militare assassinato 30 anni fa dalle ‘ndrine. “Insegnanti – ha esordito l’ufficiale, squarciando il protocollo – spiegate bene ai ragazzi che cosa sia la ‘ndrangheta e non abbiate paura di usare questa parola. Ditela. Non l’ha detta nessuno, oggi in chiesa. C’è solo una strada, non ce ne sono altre. Spiegatelo bene ai ragazzi che cos’è. Non abbiamo altro modoo”.

Il bivio delle femmine. Sposarsi o studiare

Spesso, le sfide passano per le parole. Pronunciate o rimosse. Più a valle del Comune, un’altra, lieve, piccolissima, sta passando nell’uso. “Ci siamo impuntati, fin dall’inizio. La definizione della nostra struttura era la prima novità da far passare. Noi continuavamo a chiamarlo il Punto Luce. Per il paese, invece, siamo rimasti quelli dell’Ospedaletto, inquilini nuovi della vecchia struttura sanitaria, una guardia medica mai entrata in funzione, poi abbandonata. Ora, quando gli anziani chiedono ai ragazzi “State andando all’Ospedaletto?”, quelli rispondono, “Sì, al Punto Luce”. Carla Sorgiovanni è la giovanissima responsabile di Save the Children per la Calabria, la coordinatrice di questa piccola astronave del gioco che si è piazzata, “ma per restare”, in via Marconi, ufficialmente ad aprile, in rodaggio già da dicembre. Una palazzina bassa, circondata da un cortile. Nelle prime ore, 7 iscrizioni. Poi è stata una coda ogni giorno. “Ho davanti agli occhi questi ragazzini silenziosi, in fila, per entrare.

Con le mamme che avevano sciolto le diffidenze, contente di trovare alleanze”, spiega Carla, “in un territorio dove solitamente chi è madre sta con la famiglia e basta, e difficilmente si concede l’idea di un sostegno, dentro o fuori le pareti domestiche”. Da 7 a 147 mamme che arrivavano all’Ospedaletto, per dettare un nome e un cognome e fare entrare un figlio nei laboratori del Punto luce. Ogni giorno, tranne i fine settimana, dalle 15 alle 19, tra gli scaffali e i divanetti colorati ci giocano Anna, Carlo, Antonio, Salvo, Gianluca. Ci fanno i compiti Andrea, Teresita, Vincenzo. I più grandi, fino ai 15 anni, Vincenzo, Mario, Tonino, non prima di aver finito di ripetere, possono vedere un film. Salvina e Antonietta possono danzare tre volte a settimana. Le bambine però ogni tanto fanno il broncio alle pazienti operatrici di staff: “Quando ci portate a fare una pizza, insieme?”.

Da mesi si vedono, ogni giorno, nei pomeriggi feriali. La responsabile di struttura, che di mestiere fa anche la cantante, un giorno che le ha intrattenute con un vocalizzo, per gioco, si è ritrovata la sala invasa. “Le bambine provavano i gorgheggi. Fammi cantare, voglio un provino. Siamo rimasti colpiti dalla risposta immediata, dal talento di alcuni di loro, ma soprattutto dal bisogno di socialità che esprimono”. Entravano parlando pochissimo in pubblico, prima. E in dialetto. Spesso, senza dire ciao né grazie. Ora i più assidui, anche piccoli, cominciano a lasciare il calabrese affilato dell’Asprumunti, sempre più fuori. E a macinare più fumetti, ad avanzare spediti sui libri. “Cominciano a usare quelle che chiamiamo le paroline magiche: per favore, prego, mi dispiace, scusa, parla tu”. Carla, con gli altri cinque operatori, non si muovono come spiriti solitari. Il Punto Luce di San Luca “dialoga” con i presìdi più piccoli che la ong mondiale per l’infanzia ha istituito nelle scuole vicine di Platì e Brancaleone, stessa Locride, stessi segni di povertà. Se il piano del Viminale ha appena previsto nel reggino tredici nuove caserme, nell’accordo quadro della Regione almeno vivono queste sole tre stazioni “del gioco” e delle relazioni.

Non facili, comunque. Né ieri né oggi. I libri all’inizio hanno sviluppato, nei più grandi, un netto rifiuto. Qualcuno pensava di dover passare lì solo del tempo, mica studiare: è stato invitato a tornare a casa, ha portato i testi di scuola con i compiti da fare, e gli è stato permesso di rientrare. Anche ora, sulla soglia del Punto Luce, le differenze convivono. Salvatore, 11 anni, vede solo il pallone. “Voglio andare a lavorare all’estero. Il cameriere, il ristoratore, poi si vede. Anche mio zio sta in Germania”. Antonio, invece, ama la lettura. “Però voglio fare il commercialista. Mi piacciono i numeri. Veramente mi piace anche il cinema, ma il pullman per andare a Bova Marino passa solo alle cinque del pomeriggio e se lo perdi non ci vai più”.

Il successo di Save the Children non sarebbe arrivato, spiega Carla, “senza il sostegno delle mamme. Abbiamo dedicato loro lo Spazio Donne. Hanno chiesto, ascoltato, visto. E hanno capito quanto servisse. Hanno voluto guardare più avanti”. Una di queste donne ragionava con alcune volontarie: non è giusto che queste figlie, se non vanno alle scuole superiori, devono pensare solo a fare bambini, sposarsi a 18 anni o sentirsi inutili, smettere di viaggiare e di crescere. Il tema delle donne calabresi che provano a spingere verso l’emancipazione, torna anche nelle parole del questore, Grassi. A Gioiosa Jonica aveva inflitto una serie di Daspo a ragazzi che avevano lo stadio per bersaglio e per svago. Dopo un percorso di riabilitazione, sono state le madri ad andare dal vertice della polizia. “Se glieli ritira proprio lei, se viene a parlargli faccia a faccia, capiranno. Non sbaglieranno più”. Il questore di Reggio ha accettato.

Racconta quella giornata come “una delle più emozionanti da quando sono in Calabria: queste donne in lacrime, strette tra loro, grate, i giovani venuti a portarmi le maglie della loro squadra del cuore”. Legami che si allargano. Carla, dal Punto Luce, aggiunge: “Con i piccoli di San Luca siamo andati in gita a Cosenza, per la prima gita al B-Book, il salone dei libri per ragazzi. Nessuno c’era mai stato. E le mamme ci hanno restituito la soddisfazione dei bambini come fosse la loro. Li hanno visti felici, sono venute per ringraziare”. Le uscite si faranno più numerose. “Se parliamo loro della luna, non ci limitiamo a disegnarla. Poi cerchiamo di andarci”. Per ora, in paese, molti minori preparano le valigie per l’estate, ma in direzione nord. “Io vado in vacanza dove papà lavora. Dove? In Svizzera. Lui ci aspetta, non lo vedo da tre mesi, ha detto che vedrò tante cose che la Calabria non ha”, svela Greta un po’ malinconica, “anche se San Luca per me è bello”.

Giovanni, 14 anni, star del calcio

Dal borgo inclinato, invece, Giovanni, un timido vincente, se ne va col sorriso. Con la calma di chi ha lavorato sodo per non precipitare dalle proprie illusioni. “Mi devo impegnare in ogni partita, niente è scontato. Ma questo volevo fare da grande”. Secco. Poi gira i tacchi, va in stanza a preparare l’ennesimo bagaglio, non il primo, certamente non l’ultimo della sua vita da piccolo campione. A quattordici anni, Giovanni Giorgi, considerato l’ala più promettente 2003, è stato convocato della Nazionale under 17, anche se è un under 15. Corteggiato da club importanti. Ruolo: esterno. “Lo ha chiamato la Juve”, dice con orgoglio suo padre. “Va forte, sia destro che sinistro”. Tendine alle finestre, cucina in ordine, le scarpette e le borse sportive in un angolo.

Da una casa ariosa e semplice di San Luca, è stata la fatica di gambe e di testa a portarlo lontano dalla montagna. Resistenza al sonno, alle ansie da prestazione, agli interminabili viaggi sulla statale. “Devo confessare: sono contento che mio figlio se ne va da qui. Non c’è altro che offra il paese, e lui ha fatto tutto da solo, ogni giorno, piano piano. Ci credeva forse più di noi”, mormora un genitore con i piedi per terra. Sebastiano Giorgi ha lo stesso nome e cognome dell’ultimo sindaco eletto, arrestato, condannato in primo grado. Ma alza le mani. “Tutti Giorgi, ci chiamiamo. Io non c’entro nulla con quelle storie. Anzi, per favore raccontate una nota positiva di San Luca, dateci una mano anche voi”. Sebastiano è cuoco, lavora in un piccolo ristorante di Bianco, più a valle, è stato a lungo all’estero per lavoro. Tre figli, “anche mia moglie fa sacrifici, i ragazzi, la casa, qualche animale”.

Dopo Giovanni, c’è Antonio di 11 anni, e Antonella, di sei. “Sono tornato a lavorare a Reggio per stare vicino a Giovanni e all’altro maschio, e poi mi godo la piccolina, l’unica femmina”. Intanto il primogenito non si faceva distrarre nemmeno dalle smorfie di lei. Attaccato al suo sogno, ma non ha mollato lo studio. “È sempre stato chiuso, riservato. Ma prometteva, me lo diceva il mister. La prima volta è stato a giocare alla Reggina, un anno. Poi, siamo andati alla Segato Viola, e ha trovato bravi allenatori e bravi compagni. Siamo contenti. Si è fatto un futuro tutto da solo, speriamo che lui sia sempre felice, lo merita, ha fatto sacrifici. Usciva dalla classe con qualche permesso, la scuola calcio era lontana da San Luca due ore di macchina, d’inverno.

Facevamo dei viaggi con un tempaccio. Sacrifici suoi, e sacrifici nostri. Su e giù dalla montagna a Reggio. Almeno tre o quattro volte a settimana, in capo a ogni domenica 12 ore di auto, ogni settimana “. Nelle viuzze dove c’è chi è cresciuto con gli animali, chi con niente, chi con i fucili o le partite di droga, Giovanni ha inseguito il pallone, e in ogni intervallo, l’assegno delle prof. Era un robusto ragazzetto riflessivo. Ora va giù veloce, è sottile lungo le fasce. “Un ragazzo che non ama farsi tanti selfie, a volte non risponde manco a noi genitori”. Facebook però gli piace. Nell’ultimo post di qualche giorno fa, dopo le partite della Nazionale giovanile a Cava de’ Tirreni, ha scritto due righe: “In fin dei conti, il calcio è fantasia, un cartone animato per adulti». Con il filmato dell’azione, e i commenti degli amici: «Guard’u stili!». «Anche in questo paese, ci si salva», ripete quasi a se stesso, Sebastiano. «Giovanni ha fatto solo scuola e pallone». Lo scatto di un attaccante tranquillo. «Abbiamo detto ai nostri figli di cercarsi un futuro, stare nelle regole. La soddisfazione è che dopo aver visto Giovanni ci chiamano, dalla Juve o dalla Nazionale, ci dicono è proprio un ragazzo a posto, silenzioso». Una storia che San Luca ha imparato a memoria. Balsamo sulle leggende nere, controcanto all’aneddotica criminale. «Giovanni non è l’unico bravo. C’è proprio il gruppetto del paese che è stato adocchiato da grandi club. Oltre a mio figlio, c’è Francesco, c’è anche Domenico». Ma basta per parlare di riscatto? Serve a cancellare le vite — devastate — di chi non si salva, neanche oggi?

Nino e Salvo, l’Erasmus che salva

Gli altri hanno quasi la stessa età di Giorgi l’attaccante. E portano cognomi ben noti, alla giustizia. Ma per raccontarli servirà solo chiamarli Nino e Salvo. Sedici e quindici anni. «L’adolescenza nera di San Luca esiste ancora, ha i suoi incubi, le sue missioni criminali più o meno pesanti, vive le sue sofferenze. E non può liberarsi da sola da un mondo arcaico, da un indottrinamento mafioso che mette in pericolo le loro vite, pregiudica la crescita da ogni punto di vista», affonda Di Bella, il presidente del Tribunale per i minori. «È avvilente pensare che stiamo giudicando i figli e i cugini di quei minori che erano stati segnalati come drammaticamente esposti al rischio criminale, quasi 30 anni fa. È la conferma che il potere mafioso procede per trasmissione ereditaria». Quel palazzetto di giustizia da cui sono partite le prime drastiche scelte di sospensione della potestà genitoriale, 5 anni fa, è considerata un’avanguardia antimafia, pur nelle pieghe di un dibattito aperto, anche teso all’interno dell’antimafia. Quaranta casi. Un esperimento che il governo vorrebbe cristallizzare con una norma.

Le ultime storie, proprio in questo pezzo di Locride. Nino è nato in uno dei rami laterali di una potente ‘ndrina. A scuola non era assiduo, ma soprattutto seminava paura, terrorizzava compagni, bidelli, insegnanti. Ora si trova fuori dal suo paese, alloggia in una struttura comunitaria, «sta studiando con profitto mantenendo un comportamento ineccepibile», raccontano gli educatori. Da alcuni mesi ha conosciuto Roma, ha visitato un museo. Indirizzi mai toccati prima. «Quando era nella scuola, a San Luca, minacciava e picchiava i compagni, le condotte violente non risparmiavano adulti e le figure di riferimento, sia bidelli, sia alcuni insegnanti», continua la sua scheda. La famiglia di Nino è raccontata negli atti giudiziari, i fratelli sono in carcere, la sua parentela allargata ha avuto la stessa sorte di condanne e 41 bis, il padre conta numerosi precedenti. Ma sono stati quei genitori — dopo un momento di reazione dura, aggressiva — ad aver manifestato gratitudine. «Forse si sono accorti che era l’unico modo per contenere il figlio in pericolosa progressione », è l’osservazione del magistrato, che autorizza periodicamente incontri saltuari con il nucleo d’origine. In questo paese dove le faide hanno lasciato solchi profondi, anche il senso genitoriale ne è uscito sopito, distorto. L’altro, il quindicenne Salvo, ha collezionato reati di droga, ha i familiari segnati da una vita zeppa di precedenti. Ha accettato un percorso di messa alla prova fuori dalla provincia di Reggio Calabria, in una comunità. «Il nostro lavoro non sarebbe possibile senza l’aiuto fondamentale di don Ciotti, dell’avvocatessa Enza Rando e di tutta la struttura di Libera», sottolinea il giudice. «È come se questi minori provassero un Erasmus della legalità, che però non esiste, non è previsto. Affondiamo le mani in situazioni che la legge non è attrezzata a risolvere.

Qui non ci sono pentiti, né minori che diventano collaboratori della giustizia, se non in qualche rarissimo caso. Si tratta solo di individuare territori del paese in cui famiglie e servizi sociali siano preparati ad accogliere per un periodo ragazzi che devono provare totalmente a ricostruirsi ». I report psicologici raccontano di macerie. Di Bella: «Per noi, sono allarmanti. Presentano disagi tipici della sindrome post-Vietnam. Hanno incubi popolati dal terrore di essere uccisi, o dalla possibilità di un blitz che porti via madre o padre, convivono fin da piccolissimi con un senso di angoscia ». L’avvocatessa Rando, storica toga in processi antimafia e vicepresidente di Libera, ha sempre sorretto quest’esperienza, nonostante ostacoli e minacce. «Quello che ti carica moltissimo sono le reazioni inaspettate di questi ragazzi», dice lei. «Uno dei minori allontanati e immersi in una nuova routine mi ha detto: conoscevo solo canne e pistole. Ora vedo solo libri. E fa riflettere la lenta emancipazione di alcune mamme, a San Luca, come nel reggino. Ti dicono: avevo rinunciato a fare la madre, ora so da che parte stare. Ma adesso aiutate anche me? Se torno, mi uccidono».

Dalle scuole, purtroppo, poche segnalazioni. Il presidente del Tribunale è lucido nell’osservazione: «Molte docenti non sentono questi campanelli d’allarme, non vedono. Forse, non vogliono. Abbiamo arrestato in passato diversi minori di San Luca con armi da guerra, fucili a canne mozze, pistole con matricole abrase. In questo caso il refrain è lo stesso, le abbiamo trovate nei cespugli e le stavamo portando ai carabinieri». In alcune realtà, resta il disprezzo per gli operatori delle forze dell’ordine. «Abbiamo saputo di minori di dodici, tredici anni che sputano per terra al passaggio delle volanti della polizia — racconta il giudice — O che si fanno tatuare sulla pianta del piede la figura del carabiniere per calpestarla». Echi dell’inferno ‘ndranghetista, impero arcaico. Forse indebolito ma non sconfitto. Visto da questo Tribunale, la lotta è ancora impari. Solo quattro giudici minorili e due pubblici ministeri nella provincia a più alta pericolosità criminale. «Così, non è facile incidere», riconosce Di Bella. Mancano in tantissimi comuni della Locride figure professionali che facciano da raccordo tra famiglie, aule, tribunali. È quasi tramonto sul lungomare di Reggio, quando il giudice lascia l’ufficio con la scorta, dopo le intimidazioni che hanno colpito l’ufficio. «Ma di questo non parlo, scusi». Più su, tra la gente d’Aspromonte, la scuola sta per chiudere i battenti. I ragazzi di San Luca sognano carriere da serie A accanto al nuovo campo, d’erba vera. E salutano senza troppo rancore i forestieri, i “denigratori” di passaggio. «Siamo fiduciosi, ma aspettiamo i fatti, contiamo che il governo mantenga gli impegni», ti dice la preside Serafino. Le faide appaiono sopite. Sotto la montagna, la vita sembra diversa. Ma troppi bambini richiamano la solitudine di quell’Argirò, il piccolo Antonello narrato da Alvaro. Il ragazzo «per la prima volta capiva di essere in mezzo a qualche cosa di ingiusto». Lungo contrade di pietre e spine.

http://www.repubblica.it/super8/2017/06/19/news/ragazzi_d_aspromonte-168523541/

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